Dolomites. Una famiglia di segat di Davestra (1864-2009)

copertina libro Dolomites, a cura di P.C. Begotti e E. Majoni

DOLOMITES
a cura di P. C. Begotti e E. Majoni
LXXXVI Congresso della Società Filologica Friulana – Pieve di Cadore 20.IX.2009
Società Filologica Friulana, Udine 2009
F.to 21×23 cm – 638 pp.

——————————————–

Il contributo, realizzato insieme agli amici Roberto Tabacchi e Remo David, è la sintesi dei vividi ricordi di quest’ultimo riguardanti la vita dei segàt, con particolare riguardo alla storia della propria famiglia. Esso compone, insieme a tanti altri contributi, la prestigiosa pubblicazione Dolomites, edita dalla Società Filologica Friulana in occasione del suo 86° congresso, svoltosi a Pieve di Cadore il 20 settembre 2009, a 90 anni dalla sua costituzione.

 

Una famiglia di segàt di Davestra (1864-2009)(1)

Premessa

L’origine delle segherie idrauliche cadorine dislocate lungo l’asta del Piave è senz’altro antica e, come asseriva Monsignor Ciani nel suo “Storia del popolo cadorino”, si può ipotizzare che i primi mulini da sega o “segatòi” risalissero circa al nono secolo dopo Cristo. Fu però durante il dominio della Repubblica Veneta che venne ideata e realizzata in Cadore, nel 1600 circa, la prima sega denominata “alla veneziana” destinata a stravolgere le tecniche di segagione dell’epoca e a segnare una lunga fase di efficienza e produttività, durata fino al ventesimo secolo. Verso la metà dell’Ottocento il lavoro nelle segherie sulla Piave era ancora molto fiorente, tant’è che tra Rivalgo e Termine se ne contavano ben 30 (sei a Rivalgo, quattordici nel complesso industriale di Candidopoli, ad Ospitale e dieci, le più vecchie, sulla sponda sinistra del fiume di fronte a Termine).

In quel periodo le seghe “alla veneziana” erano nel pieno del loro sviluppo tecnologico ed erano assurte ad esempio di efficienza e funzionalità anche oltre frontiera. Nel 1858, l’ispettore forestale austriaco Josef Wessley, introducendo un suo studio su queste macchine, così scriveva (Bonetti 2004: 44): “… il genio, cosa che qui si esplica in ogni attività, si rivela anche nella costruzione delle segherie … e faccio riferimento alle valli del Piave dato che questa zona può essere senza dubbio considerata l’accademia europea per il taglio delle assi …”. L’economia dei paesi cadorini faceva quindi capo ad una produzione di legname conosciuta ed apprezzata sia in Italia che all’estero ed il lavoro dei segàt (gli operai adibiti a segare le taie), accompagnato dai colpi ritmici e dallo stridio delle seghe, scandiva il trascorrere del tempo lungo il Canal de la Piave.

A tal proposito, va ricordato che in passato era molto usato l’adagio che recitava: Laris, pez e pin fei le spese al cadorin. Un’epoca che già è storia ma che rivive nei racconti dei meno giovani i quali hanno assaporato direttamente, fino alla prima metà del Novecento, l’atmosfera di un mondo e di una civiltà che hanno reso celebre il Cadore e l’operosità della sua gente. Remo David di Calalzo, il cui cognome tradisce però le chiare origini di Davestra, frazione di Ospitale, raggiunta l’età della quiescenza dopo una vita lavorativa dedicata alla produzione di occhiali, ha riaperto il suo cuore dove, mal celati ed intensi, sono riemersi i ricordi di adolescente nato e cresciuto in una famiglia di segàt.

In Carinzia (1904-1915)

Il nonno, Antonio Marcellino David detto “Costanza” dal nome della madre, era nato a Davestra il 17 agosto 1864 ed era divenuto, come gran parte dei suoi paesani, un segàt di professione, avendo appreso l’arte lavorando inizialmente nella segheria dei De Marco a Termine (famiglia da cui discendeva anche la madre) e, dal 1882, negli stabilimenti di Candidopoli ad Ospitale, complesso composto da ben 14 segherie che producevano tavolame e lavorati vari, sia per il mercato italiano che per quello extraeuropeo. Sposatosi con Giustina, egli diventò padre di otto figli: Maria (1889), Augusto (1892), Enrico (1895), Bortolo (1897), Costantina (1901), Giovanni (1904), Candido (1907) ed infine Luigi (1910).

Antonio Marcellino David (1864-1937) ritratto in posa durante la permanenza in Austria (Arch. R. David).
Antonio Marcellino David (1864-1937) ritratto in posa durante la permanenza in Austria (Arch. R. David).

Ad inizio del Novecento molti segàt cadorini furono contattati ed assunti presso numerose ditte d’oltralpe per costruire ed utilizzare quelle ingegnose macchine idrauliche anche sui loro territori. Fu così che il nonno, nel 1904, poco dopo la nascita del figlio Giovanni (mio futuro padre) e portandosi appresso la primogenita Maria, allora quindicenne, partì per la Carinzia dove, in undici anni di permanenza, lavorò negli stabilimenti lungo la Drava, tra Lienz e Klagenfurt.

Anche la zia Maria coadiuvava il padre presso gli stessi stabilimenti, adibita a trasportare sulle spalle le assi appena tagliate, che doveva poi accatastare nelle apposite capriate (cauriade) esterne alla segheria, dove il legno si arieggiava e subiva la stagionatura. A Davestra intanto, nei primi tempi, nonna Giustina doveva pensare a mantenere gli altri cinque pargoli, di cui il più vecchio (Augusto) aveva solo dodici anni. La povera economia familiare abbisognava di essere integrata con le magre risorse offerte dal territorio e anche lei, come allora tutte le donne della montagna, trascorreva gran parte della giornata coltivando i campi e sfalciando i prati per ottenere il foraggio necessario ad alimentare le capre e, soprattutto, la mucca. Man mano che crescevano, i quattro figli maschi vennero “reclutati” nelle segherie di Candidopoli come apprendisti (segantin), mentre la figlia Costantina aiutava la madre nel quotidiano lavoro domestico.

Se i primi due anni in Carinzia rappresentarono per il nonno e la zia il periodo più duro, contribuirono, allo stesso tempo, a gettare una “testa di ponte” per il resto della famiglia che, una volta trovato un alloggio dignitoso, si trasferì in quei luoghi nell’anno 1906, rientrando a Davestra solo per brevi vacanze estive. Il nucleo familiare venne successivamente allietato dalla nascita dei figli Candido e Luigi e, gradualmente, anche i ragazzi più grandicelli, Augusto ed Enrico, trovarono impiego nella florida industria del legname austriaco, occupazione che rappresentò un periodo di tranquillità, non solo economica, per l’intera famiglia e che proseguì ininterrotto fino all’anno 1915, allorché scoppiò il primo conflitto mondiale e, con esso, giunsero anche la fame ed i dolori. Mentre per i genitori ed i sette figli più giovani non vi furono problemi a rientrare in Italia, il ventitreenne zio Augusto, che si era rifiutato di farsi arruolare nell’esercito austroungarico, venne internato in un campo di concentramento in Ungheria e lì rimase fino alla fine della guerra.

Ritorno a Candidopoli (1918 – 1926)

Solo nel 1918 la famiglia di Antonio David poté ricongiungersi nel luogo d’origine, ritrovando il lavoro nelle segherie di Candidopoli. Proprio in quell’anno mio padre Giovanni, a quattordici anni, subì il primo infortunio di una certa gravità, determinato principalmente dall’inesperienza. Era consuetudine che per affilare la lama della sega, senza smontarla per non perdere tempo prezioso, si bloccasse il telaio con un puntello e quindi si salisse sul carro d’avanzamento operando con la lama stretta tra le gambe. La fuoriuscita del puntello, non adeguatamente collocato, fece scendere il telaio e la lama gli procurò un taglio di quattordici centimetri all’interno della coscia sinistra, che vennero suturati dal medico di Longarone con ventiquattro punti. Ma, a quell’epoca, non ci si poteva concedere la convalescenza e mio padre, dopo pochi giorni, ritornò al lavoro. Con il ventesimo secolo intanto, anche la tecnologia e l’industria che la sfruttava avevano compiuto un balzo di qualità grazie all’arrivo dell’energia elettrica e molte delle attività produttive del primo dopoguerra subirono un repentino mutamento, se non l’inesorabile abbandono.

L’acqua aveva, fino ad allora, rappresentato la fonte energetica primaria, indispensabile per dare movimento alle macchine da lavoro che, quindi, dovevano essere collocate nelle sue immediate vicinanze. Ciò aveva comportato, nei secoli, la ricchezza delle popolazioni rivierasche ma aveva anche sottolineato l’estrema vulnerabilità del sistema, allorché i corsi d’acqua si trasformavano in causa di distruzione durante le frequenti piene. I motori elettrici consentirono di costruire le segherie direttamente a contatto dei luoghi d’esbosco e la parte alta della provincia di Belluno vide un continuo proliferare di questi opifici. Dopo le devastanti alluvioni degli anni a cavallo tra il 1924 ed il 1927, quando già la ferrovia aveva raggiunto il Cadore (1914), gran parte dei manufatti dislocati lungo il corso della Piave, pesantemente danneggiati da quelle ultime brentane, vennero gradualmente abbandonati ed i segàt, che da molte generazioni avevano qui trovato impiego, furono costretti a cambiare residenza per seguire un posto di lavoro.

Calalzo e l’ “Industria Cadorina del Legno” (1926-1935)

Nel 1926 il nonno, all’età di sessantadue anni e che tre anni prima aveva dovuto sopportare il dolore causato dalla morte del figlio tredicenne Luigi, venne assunto, assieme ai quattro figli maschi più grandi, dalla ditta Giacobbi di Calalzo. Il paese cadorino, grazie alla posizione baricentrica rispetto agli altri abitati, ma principalmente grazie al ruolo di capolinea della strada ferrata, si era trasformato in breve in un importante centro per le attività collegate alla produzione ed al commercio del legname e circa una decina furono le segherie che qui iniziarono a produrre, a partire dagli anni ’20. I fratelli Giacobbi, titolari dell’ “Industria Cadorina del Legno”, possedevano i complessi più estesi. Uno era collocato proprio a ridosso dello scalo ferroviario, mentre l’altro era più a monte, al margine della strada nazionale in località Cristet. Il nonno, grazie alla sua abilità di carpentiere acquisita in quasi cinquant’anni di esperienza, coordinò il lavoro dei figli e di altri venti segàt provenienti da Davestra nella costruzione prima e nell’uso poi di quattro seghe “alla veneziana”, due per ogni stabilimento della ditta Giacobbi.

Maria David, figlia di Antonio, posa con i figli (Arch. R. David)
Maria David, figlia di Antonio, posa con i figli (Arch. R. David)

La laboriosa costruzione delle quattro macchine durò per tutto l’anno 1927 e solo nel ’28 esse entrarono in produzione grazie all’arrivo della preziosa forza motrice garantita, all’epoca, dalla Sibat (Società idroelettrica “Bartolomeo Toffoli”). Tutti alloggiavano in piccole strutture adiacenti alla segheria del Cristet e, a fine settimana, ritornavano a Davestra per ricongiungersi con le famiglie, servendosi del treno fino alla stazione di Ospitale e completando il tragitto a piedi. Mio padre Giovanni invece, più giovane, aveva acquistato una bicicletta da corsa con la quale si gettava a capofitto lungo i tornanti sterrati della Cavalera, entrando in competizione sia con se stesso che con la sbuffante macchina a vapore delle ferrovie. Al paese di origine egli aveva intanto trovato l’anima gemella, sua coetanea, di nome Angela David, figlia anch’essa di un segàt (Paolo David “Subiòta”, che lavorava a Feltre) e, il 23 marzo 1929 i due convolarono a nozze nella piccola chiesa di Sant’Antonio. Le sopraggiunte responsabilità familiari spinsero mio padre a trovare casa a Calalzo, proprio di fronte alla segheria del Cristet e lì nacque dapprima la primogenita Anna Maria (1929) ed in seguito vidi la luce anch’io (1931).

In quel periodo il nonno Antonio aveva fatto pressione sui quattro figli perché contribuissero ad acquistare e ristrutturare una vecchia stalla in quel di Davestra, già proprietà della ricca famiglia dei Costantini, allo scopo di ricavare degli appartamenti, uno per ognuno di loro e ciò si rivelò, in seguito, una scelta oculata. Nel 1933 mio padre lavorò per alcuni mesi in Val Visdende, coadiuvando il fratello Bortolo nell’acquisto e nella segnatura del legname e mia madre, che era rimasta nuovamente incinta, si trasferì a Davestra con i suoi due piccoli, dove la nonna Giovanna poté esserle di aiuto durante il parto di Milena, la terzogenita, che venne alla luce nel mese di settembre. L’importante presenza di nostro padre durò per me il breve spazio di quattro anni perché, dopo che due anni prima era scomparso il fratello Candido, nel ’35 anch’egli morì, all’ospedale di Belluno, in seguito ad una “banale” operazione di ulcera duodenale, lasciando tre figli in tenera età ed una moglie di nuovo incinta che, nel mese di dicembre, partorì il secondo figlio maschio, chiamato Giovanni a ricordo del padre. In quei primi quattro anni della mia vita, avevo avuto modo di assaporare il fascino coinvolgente della segheria perché mia madre, quando andava a fare la spesa in Cooperativa oppure al lavatoio per lavare i panni, mi conduceva dal papà e quelle ore, trascorse tra la segatura ed il profumo del legno appena tagliato, in compagnia della grande famiglia dei segàt di Davestra, fecero germogliare nel mio giovane cuore un amore a prima vista, che mi ha poi accompagnato nel prosieguo della vita. Ricordo con nostalgia i momenti in cui mio padre mi montava sul carro d’avanzamento della sega che, benché la velocità fosse minima, mi facevano sentire un cavaliere invincibile in groppa al suo destriero.

Ma anche gli zii Augusto ed Enrico, che si erano specializzati in Carinzia, usavano quotidianamente le “veneziane” e mi ricordo ancora il loro accento e l’uso di termini tecnici marcatamente “tedeschi”, che io a quell’epoca non comprendevo ma che, in seguito, ricondussi ai luoghi dove avevano appreso l’arte di segàt. L’altro zio, Bortolo, che evidentemente aveva meglio assimilato l’uso della penna piuttosto che della sega, era divenuto un apprezzato agente di commercio della stessa ditta dei fratelli Giacobbi e di lui, di conseguenza, conservo un ricordo solo marginale. Rammento bene, invece, gli zii Emilio ed Alessandro “Cona”, che lavoravano anch’essi in quel luogo e soprattutto il secondo, che mi portava a pescare vicino al laghetto di Làgole.

Davestra (1935-1937)

La perdita del marito, intanto, aveva fatto precipitare nello sconforto mia madre che, all’età di trentun’anni, si vedeva costretta, da sola, a sfamare quattro figli in tenera età. Fu così che ella ritornò a Davestra coi suoi orfanelli, nell’appartamento ristrutturato da mio padre e grande fu l’aiuto prestato dai suoi anziani genitori nell’ingrato compito di far crescere senza traumi di sorta i giovani nipoti. Nonna Giovanna ci portava tutti i giorni un litro di latte di capra appena munto e nonno Paolo le trote che riusciva a pescare nella Piave. I sabati egli andava a Longarone in bicicletta e al ritorno serale ci portava la carne, che mia madre cucinava il giorno dopo con la polenta. I giorni di festa andavano santificati ma, prima di essere vestiti con l’abito buono ed accompagnati alla Santa Messa, ella ci lavava a turno nella grande tinozza (mastela) di legno riempita di acqua. In quegli anni Davestra contava circa 250 abitanti e gli uomini lavoravano quasi tutti come segàt, sparsi in diverse aziende di legname della provincia di Belluno. Intensi sono i ricordi di quel periodo, passato a contatto col fiume Piave.

Il lungo ponte di legno ad otto arcate costituiva l’unico “cordone ombelicale” col resto del mondo ma a me poco importava, perché il mio piccolo mondo era qui. La scuola elementare aveva una classe unica, dalla prima alla quinta e gli scolari avevano dai sei agli undici anni ed erano molti; solo i cugini erano una ventina. Per quello che potevano, anche i ragazzi contribuivano a sostenere la povera economia familiare pascolando le capre, raccogliendo la legna o trasportando il fieno, ma la vera e indescrivibile emozione era quella che si provava sulle rive del grande fiume. Durante le piene primaverili o le brentane autunnali, quando l’acqua toccava entrambe le sponde, la Piave trasportava una gran quantità di legname alla deriva e tutte le donne, aiutate dai figli più grandi, estraevano ed accatastavano quella provvidenziale riserva di combustibile, che poi “demarcavano” con due legni incrociati a garanzia che nessuno se ne appropriasse. In quei periodi era molto praticata la pesca ai marsoi (piccoli pesci di fiume) che si avvicinavano alla riva e venivano catturati con un rudimentale guadino (schirel) dopo aver sollevato i sassi sotto cui si nascondevano mentre, durante l’estate e nei periodi di magra, le grave del Piave diventavano il “parco giochi” preferito dai ragazzi di Davestra. Intanto che i più grandicelli facevano il bagno nelle pozze con l’acqua più profonda (moie) i piccoli costruivano castelli di sabbia vicino alla sponda, dove la rena sottile (leda) era simile a quella marina.

In quegli anni assistetti di persona ad una delle ultime menade lungo il corso del Piave, compiuta per trasportare alcune centinaia di tronchi d’abete, tagliati in Val Bona, fino alla segheria sul Maè, poco a valle di Longarone dove, negli ultimi anni, aveva lavorato anche il nonno Paolo. Le poche risorse finanziarie della nostra famiglia erano derivate da un’assicurazione aziendale sottoscritta da mio padre presso la ditta Giacobbi in quanto, all’epoca, non esisteva la pensione di reversibilità. Mia madre si adoperava in tutti i modi per arrotondare quel magro provento e, oltre a coltivare i campi per ottenere fagioli e patate, andava saltuariamente presso lo sbocco della Val Tovanella, in corrispondenza della stazione d’arrivo di una teleferica dove lavorava lo zio Pietro, a caricarsi sulla gerla (zeston) un po’ di legna da ardere. Lo zio Evaristo, invece, le aveva donato una capra da latte ed un campo nei pressi della stazione ferroviaria di Ospitale, che lei andava puntualmente a vangare. Per un certo periodo, concomitante con la costruzione del grande muraglione sopra la sede ferroviaria di fronte a Davestra ella, come molte sue compaesane, trasportò la ghiaia (sabion) dal letto del Piave fino alla ferrovia.

Carichi pesantissimi fatti salire lungo l’erto sentiero mozzafiato, ma quelle donne erano avvezze da sempre a lavorare come bestie da soma per raggranellare qualche spicciolo utile all’economia familiare. Quel tipo di vita, per quanto fosse abituata a stringere i denti, non le si addiceva molto perché, fin da giovane, lei aveva conosciuto ambienti di lavoro più gratificanti. Già a quattordici anni, seguendo il padre, aveva fatto la cameriera al bar “Commercio” di Feltre e successivamente, dopo sposata, era stata sei anni a Calalzo, a contatto con l’industria del legname, dove le “comodità” erano ben maggiori che a Davestra.

Adolescenza e segherie (1937-1945)

Fu così che due anni più tardi, nel 1937, anche per concedere maggiori opportunità ai giovani figli, si trasferì nuovamente nel centro cadorino, in quella via Cadarìa dove abitava anche “sior Ennio” Giacobbi, già datore di lavoro di mio padre. Ella trovò lavoro all’interno della fabbrica di occhiali dei fratelli Lozza, assunta per fare le pulizie allo stabilimento e, in tali orari, era sostituita in famiglia dalla figlia maggiore, Anna Maria, sia per preparare il pranzo che per accudire il piccolo Giovanni. Due o tre volte alla settimana si recava presso la segheria al Cristet, dove ancora lavoravano gli zii Augusto ed Enrico e dove, col permesso di Ennio Giacobbi, si riempiva il zeston con gli scarti della lavorazione del legno, ottimi per riscaldare la nostra casa.

Lo zio Bortolo, invece, si era trasferito in Africa (Somalia ed Eritrea) nel 1936 al servizio di una ditta di Milano che importava legname pregiato da quei luoghi, all’epoca colonie italiane; al posto del legno di abete e larice si era specializzato a commerciare tech, palissandro e mogano. Dopo il 1940 egli si trasferì a Vipiteno, con l’incarico di acquistare i carichi di legname che provenivano direttamente dall’Austria. Nel 1938 intanto, all’età di 74 anni, era morto il nonno Antonio, capostipite della famiglia, che aveva dovuto sopportare la tragedia della perdita di tre giovani figli, l’ultimo dei quali era mio padre. Andato in pensione all’inizio degli anni ’30, egli aveva continuato a lavorare per le segherie, usando il tornio nella casa di Davestra per produrre i rulli di scorrimento del carro delle seghe. Negli anni immediatamente seguenti, anche gli zii Enrico ed Augusto lasciarono gli stabilimenti di Calalzo per trasferirsi, rispettivamente, a Dobbiaco ed a Piniè di Vigo di Cadore, continuando ad esercitare la professione di segàt fino all’età della pensione.

Il primo modello funzionante di segheria "alla veneziana", esposto a Rizzios nel 2004 (Arch. R. David)
Il primo modello funzionante di segheria “alla veneziana”, esposto a Rizzios nel 2004 (Arch. R. David)

Io, che nel frattempo avevo iniziato a frequentare la scuola a Calalzo, accompagnavo con gioia mia madre nei suoi viaggi settimanali in segheria per prelevare gli scarti del legno. Ormai grandicello e pieno di curiosità, mi facevo introdurre dagli zii Emilio, marito della zia Costantina ed Alessandro, fratello della nonna Giovanna, nei segreti più reconditi di quel mondo, per me incantato. Il primo esercitava anche il ruolo di cuoco, non di professione, per tutti i colleghi che lavoravano nello stabilimento, ma era soprattutto col secondo che avevo instaurato un rapporto confidenziale, quasi di complicità.

Fu lui che gradualmente mi svelò l’arte del suo lavoro ed il funzionamento di quelle vecchie ma efficientissime seghe da sempre conosciute come “alla veneziana”, dai cui ritmici movimenti restavo ammaliato. Benché negli ultimi anni la tecnologia avesse permesso l’acquisto di macchine d’acciaio più evolute quali una “Brenta” a nastro e due “Gatter” multilama, i segàt erano in vera simbiosi solo con le quattro “veneziane”, che avevano costruito con le loro mani e che ancora conservavano un’invidiabile qualità di taglio. Il lavoro di quegli uomini era stato agevolato dalla tecnologia del ventesimo secolo e i turni di lavoro, che per i loro antenati erano di 12 ore (fino a inizio ‘900 le seghe lavoravano incessantemente anche di notte), si erano ridotte a 8 ore giornaliere: dalle sei alle quattordici e dalle quattordici alle ventidue. Il legname lavorato dalle segherie dei Giacobbi era, di preferenza, trasformato in tavolame e proveniva principalmente dai boschi del Cadore (Val d’Óten, Auronzo, Pozzale). Giunte in segheria, le taie venivano inizialmente accatastate e, in seguito, ognuna di esse veniva spostata col zapin da due operai, che provvedevano quindi a rifilarne le estremità con il segon, perché, a causa del trascinamento durante l’esbosco, facilmente si incastravano sul legno dei sassolini, che avrebbero potuto seriamente danneggiare il filo della lama da taglio. Il tronco veniva così portato ad una lunghezza di quattro metri e le due estremità tagliate (zoc) erano accatastate al margine perché, comunque, costituivano merce da commercio. Il diametro della taia poteva variare dai trenta ai sessanta centimetri ed il legno era principalmente di abete rosso anche se, sovente, erano lavorati i tronchi di larice.

Una volta ultimata questa operazione, la preziosa materia prima era pronta per essere caricata su un carrello di ferro, poggiante su rotaia, che la trasportava all’interno della segheria, proprio di fianco al carro d’avanzamento della sega. Era a questo punto che entrava in azione lo specialista (il segàt), che inizialmente controllava l’intera superficie del tronco, pronto a slisciarne le imperfezioni col manarìn e ad eliminare le impurità eventualmente sfuggite nella fase iniziale della lavorazione. Usando con maestria il zapin egli, quindi, faceva rotolare la taia sul carro della sega e, con lo stesso attrezzo, la girava per trovare la venatura giusta (conastro), in modo che il taglio producesse la minor quantità possibile di scarto. Trovata la posizione ottimale, la taia veniva bloccata tramite un travetto mobile, accostato al suo fianco e a sua volta fermato da un piolo in ferro, dopodiché si poteva dare inizio alla lavorazione, azionando la sega. Il primo taglio era a scorz (scorza o scarto), venivano poi tagliate di seguito una tavola da 20 mm, una da 25, una da 30 e così via fino ad arrivare al centro; il midollo veniva eliminato in quanto poco consistente. Per ottenere la giusta misura delle tavole, venivano usati degli spessori di legno di faggio (larghi da dieci a ottanta centimetri e alti settanta) che avevano un foro nella parte alta, per l’inserimento in un perno fissato alla sponda interna del carro. Gli spessori erano normalmente cinque, posati su uno scaffale adiacente e distanziati di un metro l’uno dall’altro.

Il segàt controllava con attenzione tutta la fase del taglio (che durava circa 5 minuti) e l’avanzamento della taia, pronto ad intervenire ogni qualvolta si manifestasse un inconveniente e bagnando spesso la lama della sega con acqua, specie se il tronco era di grosse dimensioni. Lo stridio della lama, la polvere del legno e l’intenso profumo da esso emanato caratterizzavano il luogo di lavoro di quegli uomini che, nei due stabilimenti della ditta Giacobbi, con le quattro seghe, riuscivano a tagliare giornalmente (nei due turni lavorativi) fino a cinquanta metri cubi di legname di media (circa 65 tronchi). Dopo il taglio, le tavole erano rifilate sulle teste con una lama circolare e quindi venivano caricate sul medesimo carrello usato per il trasporto iniziale delle taie e, trasferite all’esterno, erano accatastate sotto le tettoie all’aria aperta, sulle capriate, dove il legno si stagionava. Successivamente, degli operai specializzati provvedevano alla loro cernita, dividendo il prodotto in tre principali varietà commerciali:

  • tavole senza nodi e difetti (usate per la costruzione di mobili e finestre)

  • tavole con nodi e piccoli difetti (usate per la costruzione di pavimenti, cassapanche ecc.)

  • tavole con vari difetti (usate in carpenteria o nelle costruzione di baite e fienili).

In ogni stabilimento questi livelli qualitativi principali potevano, a loro volta, essere suddivisi in altre categorie, che volutamente tralascio. I zoc, gli scorz ed i ritagli ottenuti dalla rifilatura delle tavole erano invece legati a fascine e poi venduti. Questo ambiente e l’atmosfera da esso diffusa mi coinvolsero pienamente fino alla metà degli anni ’40, alla fine della guerra, periodo nel quale la segheria era divenuta un luogo a me familiare, dove sovente mi recavo per ammirare estasiato il fervore che accompagnava le varie fasi produttive. Nel dopoguerra la richiesta di legname era progressivamente aumentata, motivata dalla necessità di ricostruire tutto ciò che i bombardamenti alleati avevano distrutto e la stazione di Calalzo divenne luogo di ammassamento per tutto il prodotto lavorato che proveniva dall’alta valle del Piave. Almeno un treno merci partiva giornalmente da questo capolinea per raggiungere numerose città d’Italia e la ditta Giacobbi, che possedeva una segheria nelle immediate vicinanze dello scalo ferroviario, era senza dubbio avvantaggiata dall’invidiabile posizione di questo stabilimento.

Ogni giorno venivano caricati di tavole circa dieci “pianali”, ognuno della portata di venticinque metri cubi di legname, ma anche la segatura veniva sovente stivata nelle “barchette” coperte e inviata in varie parti della penisola. Altre ditte, anche da fuori zona, usavano questo piano caricatore per spedire le loro merci ed il legname proveniente dal Comelico era trasportato con i camion della ditta Petris. Qui si scaricavano anche numerosi generi alimentari e molta frutta destinati a due grandi magazzini che operavano nell’area della stazione e, precisamente, quello dei fratelli Passuello e quello di Italo Da Vià ed i facchini della “Cooperativa Porta Bagagli”, che solitamente lavoravano con i treni, ben si prestavano, in quelle occasioni, ad arrotondare il loro stipendio. Ad ovest della stazione esisteva anche un secondo piano caricatore, usato soprattutto dalla ditta di Orlando Giacobbi che, poco lontano, possedeva le tettoie sotto le quali erano accatastate le tavole pronte alla vendita.

Il lavoro (1945-1984)

Nel 1945 intanto, da poco finite le scuole elementari, mia madre trovò per me un lavoro presso la fabbrica di giocattoli della ditta Toffoli, sempre a Calalzo, dove, tra l’altro, si costruivano modelli statici ad uso delle scuole professionali e dove cominciai ad affinare la manualità e a prendere dimestichezza con alcune macchine operatrici (tornio, fresa ecc.). Questo impiego durò alcuni mesi dopodiché, sempre grazie a mia madre, venni assunto nella fabbrica di occhiali dei fratelli Lozza dove, nel frattempo, aveva iniziato a lavorare anche la sorella maggiore, che dava una mano a fare le pulizie dello stabilimento. Dopo undici anni, nel 1956, sull’onda dell’entusiasmo e della voglia di “evadere” propria dei ventenni, assieme al alcuni colleghi di Pozzale, maturai il proposito di emigrare in Canada per fare il boscaiolo, visto che quel Paese richiedeva molta mano d’opera, anche dall’Europa. Parlando col figlio di Ennio Giacobbi, divenuto titolare delle segherie di famiglia, mi convinsi che, dopo alcuni anni lavorati sotto il tetto di una comoda fabbrica di occhiali, sarebbe stato per me oltremodo difficile potermi adattare ai ritmi di un lavoro così massacrante.

Per dissipare le ultime incertezze e per consentirmi di ritornare nei luoghi di lavoro conosciuti fin dalla prima infanzia, egli mi offrì l’opportunità di fare un po’ di praticantato come segantin, affiancando il lavoro del cugino Aldo “Subiòta”, due anni più vecchio di me e suo dipendente, che aveva continuato a seguire le orme dei nostri avi ed era divenuto un esperto segàt. Tutte le sere, finito il lavoro in fabbrica, tornavo nella segheria del Cristet e, dalle 18 alle 20, riassaporavo nuovamente le emozioni vissute vent’anni prima. Mi ricordo che un giorno rovinammo inconsapevolmente la lama della “veneziana” durante la fase di segatura di un grosso tronco di larice proveniente da Federa Vecia, in Comune di Auronzo. Giunti circa a metà del terzo taglio, lo stridere acuto e l’inceppamento della lama ci fecero comprendere che all’interno della taia c’era del metallo, sfuggito all’esame della superficie esterna perché, nel corso degli anni, il legno lo aveva fagocitato dentro di sè. Appurammo in seguito che si trattava di un grosso fil di ferro che, almeno trent’anni prima, qualcuno aveva stretto sul tronco del povero albero e che, una volta reciso all’esterno, era rimasto a sua volta imprigionato dalla crescita della pianta, che lo aveva così “assorbito”.

Remo David posa con la sua seconda "segheria" durante la "Festa degli antichi mestieri" (Arch. R. David)
Remo David posa con la sua seconda “segheria” durante la “Festa degli antichi mestieri” (Arch. R. David)

Mi raccontava il cugino che altre volte si erano verificati inconvenienti di quel tipo, causati soprattutto dalle pallottole (sia da guerra che da caccia) e che, purtroppo, non c’era alcun sistema per evitare danni alla lama della sega [in seguito, grazie all’esame preventivo con gli ultrasuoni, si fu in grado di controllare accuratamente il legname, anche all’interno]. Nel 1957, in seguito alla crisi economica mondiale causata dalla “guerra fredda” tra Stati Uniti e Unione Sovietica, anche l’occhialeria cadorina subì la recessione del momento e il mio spirito libero, che mal si adattava alla “routine” quotidiana, mi spinse di nuovo ad “evadere”. Fu così che approdai in Germania dove lavorai per cinque anni, dapprima in una gelateria e quindi in un grosso stabilimento che lavorava e inscatolava la carne. Nel 1963, ritornato a Calalzo quando le ultime segherie stavano progressivamente chiudendo l’attività, incontrai casualmente Mario Lozza, divenuto titolare della fabbrica di occhiali che, valutato il mio curriculum, mi propose di diventare capo reparto all’interno dello stabilimento.

Essendomi nel frattempo sposato, non mi lasciai sfuggire quella ghiotta occasione di ritorno nel paese adottivo ed accettai volentieri l’incarico. Nel 1966, in seguito all’alluvione che devastò l’intera provincia di Belluno, anche Davestra dovette subire numerosi danni alle abitazioni (tra cui quella del nonno Antonio) e, in seguito al crollo del ponte sul Piave, anche l’isolamento dal resto del mondo. La triste occasione mi convinse a vendere tutte le proprietà ereditate in quel luogo e, col ricavato, iniziai a costruire casa a Calalzo. Per circa vent’anni, fino al 1984, ho continuato a lavorare nella ditta dei fratelli Lozza, ricoprendo un incarico che mi ha dato modo di vivere e di mettere definitivamente radici in questo paese, dove sono nati anche i miei figli.

Pensione e passione (1984-2009)

Andato in pensione, per altri vent’anni ho dedicato il tempo libero a sviluppare la mia creatività soprattutto nell’intaglio del legno, materia prima con cui sento di “dialogare”, che ho sempre amato fin da bambino e che ha consentito a intere famiglie di cadorini, come la mia, di continuare a vivere in questi luoghi. In tale contesto, il vecchio adagio Laris, pez e pin fei le spese al cadorin può essere, a mio avviso, ancora di attualità, considerando le “spese” non tanto come interesse venale ma, soprattutto, come riacquisizione di un patrimonio storico e culturale. Il seme della passione per le segherie, rimasto in embrione nel mio cuore per molti anni, ha ripreso a germogliare con forza nel 2001 quando, su invito dell’Amministrazione comunale di Calalzo, gli eredi degli zattieri di Codissago, che da pochi anni avevano ricostituito la “Faméja” e festeggiato il cinquecentesimo anniversario dei loro statuti, hanno assemblato una zattera nel laghetto di Lagole, per dare modo ai giovani di oggi di riappropriarsi di un’importante pagina della loro storia. Vedere quegli uomini al lavoro, ripetendo gesti e consuetudini tramandate nei secoli, ha scatenato in me la voglia di riscoprire e far conoscere ai posteri anche l’attività produttiva a monte della navigazione fluviale e cioè la lavorazione del legname; trasmettere le conoscenze personali sulle segherie e sul lavoro degli uomini che in quegli stabilimenti producevano la preziosa materia prima, trasportata per molti secoli sul fiume dagli zattieri.

Durante la mia vita, trascorsa nell’epoca caratterizzata dall’evoluzione tecnologica, ho avuto modo di ammirare dapprima le ultime fasi di uno sviluppo strettamente correlato alla manualità e alla professionalità dell’uomo e vederne poi le fasi successive, nelle quali esso pare relegato, sempre di più, a ruolo di comprimario. Spinto dai ricordi, ho cercato di usare al meglio gli strumenti offerti dalla moderna tecnologia per ricostruire in miniatura parte di quell’industria che ha prosperato fino alla metà del ventesimo secolo. Nel piccolo, ho provato a rispolverare l’ingegno e l’abilità che caratterizzavano intere generazioni del passato, cercando di riappropriarmi di quella professione di segàt che i miei avi avevano praticato per più secoli, soprattutto a contatto della Piave. Consapevole che la mia generazione può ritenersi l’ultima depositaria di quell’arte, ho iniziato a ricercare ed assemblare i tanti tasselli mancanti alla memoria e così, gradualmente, ho ricostruito il fabbricato di una segheria in scala 1:20, aiutandomi anche attraverso le poche testimonianze di ciò che ancora esisteva. La Val Pusteria e l’Austria, dove aveva lavorato la famiglia del nonno, divennero mete di viaggi mirati, per ammirare dal vivo ciò che rimane sia dei fabbricati esterni (soventi trasformati in graziose baite abbellite dai fiori) e sia di alcune seghe ancora funzionanti, principalmente a scopo turistico.

Nella primavera del 2004, esattamente cento anni dopo la nascita di mio padre e dopo il primo viaggio del nonno in Carinzia, sono riuscito ad ottenere, dal vero, le misure del carro d’avanzamento di una delle ultime seghe “alla veneziana” che aveva operato in Cadore e che si stava smontando sotto al ponte ferroviario di Vallesina. Con quei preziosi dati sono riuscito a completare il mio primo modello funzionante, interamente in legno, che nel mese di luglio di quell’anno ho avuto il piacere di esporre a Rizzios, durante la sagra di Sant’Anna patrona del paese. Questa gratificante esperienza mi ha ulteriormente stimolato nella ricerca e così ho elaborato un successivo progetto, relativo alla riproduzione della segheria della famiglia Da Col, in funzione a Calalzo sul torrente Molinà fino agli anni ’80 ed il cui fabbricato esterno ancora resiste alle intemperie del tempo. Nell’estate del 2005 ho avuto modo di mostrare ed illustrare questo lavoro nel corso della “festa degli antichi mestieri”, che ogni anno si tiene a Valle lungo la storica borgata di Costa. La fantasia e l’entusiasmo mi hanno veramente spronato e nel 2006 ho costruito un terzo modello, di libera interpretazione, che ho avuto il piacere di esporre sia nel mio vecchio paese (Davestra) che ad Erto, nel vicino Friuli. L’ultima importante esperienza, in ordine cronologico, riguarda il contributo tecnico, che ho prestato insieme al cugino Orazio nell’autunno del 2007 alla Fameja dei Zater di Codissago. Si trattava di assemblare prima e regolare poi il sistema di avanzamento di una vecchia sega “alla veneziana” risalente al 1838 e già proprietà della ditta Ciotti di Sottocastello, acquistata dagli “zattieri” nel 1999 per arricchire il loro fornito museo etnografico.

La gioia provata nell’ammirare il regolare movimento del carro, dopo alcuni accorgimenti dettati dalle nostre conoscenze, è stata davvero immensa. Vedere quella stupenda macchina, ferma da qualche decennio, ritornare a vivere e “sentirne la voce” attraverso i colpi ritmici del telaio è stata un’emozione davvero indescrivibile, che non si può tradurre con le parole. Nel 2008, anno da poco passato, ho iniziato a costruire una quarta segheria in miniatura e posso ben dire che quell’antico seme, rimasto congelato nel mio cuore per oltre sessant’anni, sta ora cominciando a fiorire. Attraverso questo piccolo contributo, dettato dall’entusiasmo e dall’amore per la mia terra e la mia gente, cerco di “seminare” un po’ del mio sapere con la segreta speranza di stimolare, specie nei giovani, la voglia di riscoprire il proprio passato ed irrobustire le radici che legano al territorio. Un sogno nel cassetto, che coltivo da anni e che rappresenterebbe il coronamento di un vecchio progetto mentale, sarebbe quello di costruire una vera sega “alla veneziana”, che potrebbe rappresentare un importante tassello per far conoscere ed apprezzare, a turisti e non, una lunga pagina della storia del Cadore, durata oltre trecento anni.

(1) Memorie di Remo David raccolte ed elaborate da Roberto Tabacchi e Danilo De Martin

Riferimenti bibliografici:

Paolo Bonetti, Ospitale e il Canal de la Piave, Comune di Ospitale, Ospitale di Cadore 2004.